Psicopatologia grave comprensione e trattamento

Psicopatologia grave comprensione e trattamento.

La definizione di psicopatologia grave ha assunto una sempre maggiore diffusione per coloro che affrontano il problema dello studio e del trattamento dei disturbi psichici, in particolare dei disturbi psicotici.

Il termine psicosi fu introdotto nel 1845 da Ernst von Feuchtersleben con il significato di “malattia mentale” o “follia”. È la più grave tipologia di disturbo psichiatrico ed espressione di una severa alterazione dell’equilibrio psichico dell’individuo, con compromissione dell’esame di realtà, frequente assenza di insight, e frequente presenza di disturbi del pensiero, deliri ed allucinazioni.

La definizione di psicosi si è trasformata nel tempo anche nei classici manuali di classificazione del DSM o ICD, per esempio il DSM-IV-TR sostiene per il temine psicotico: “Questo termine ha ricevuto nella storia un gran numero di definizioni diverse, nessuna delle quali gode di accettazione universale. La definizione più restrittiva di psicotico si riferisce ai deliri o alle allucinazioni rilevanti che si manifestano in assenza di consapevolezza della loro natura patologica. Una definizione lievemente meno restrittiva comprenderebbe le allucinazioni conclamate, di cui il soggetto si rende conto che sono esperienze allucinatorie e, più ampia ancora è la definizione che include anche gli altri sintomi positivi della Schizofrenia ( la disorganizzazione dell’eloquio, e il comportamento catatonico o grossolanamente disorganizzato).

A differenza di queste definizioni, basate sui sintomi, la definizione utilizzata nel DSM-II e nell’ICD-9 era probabilmente troppo inclusiva, e troppo basata sulla gravità della menomazione funzionale, cosicché un disturbo mentale veniva denominato psicotico se causava “una menomazione che interferisse grossolanamente con le capacità di affrontare le ordinarie necessità della vita”. Infine il termine è stato definito concettualmente anche come perdita dei confini dell’Io, o ancora come compromissione grossolana del test di realtà. A seconda delle loro manifestazioni più caratteristiche, i diversi disturbi del DSM-IV mettono in rilievo i differenti aspetti delle varie definizioni di psicotico”.

I sintomi psicotici sono ascrivibili a disturbi di forma del pensiero, di contenuto del pensiero, della senso percezione.

• Disturbi di forma del pensiero: alterazioni del flusso ideativo fino alla “fuga delle idee” ed all’incoerenza; alterazioni dei nessi associativi, come le risposte di traverso, o i salti di palo in frasca;
• disturbi di contenuto del pensiero: ideazione prevalentemente delirante (deliri, spunti interpretativi);
• disturbi della senso percezione: dispercezioni ed allucinazioni uditive, visive, olfattive, tattili, in cui prevalgono di solito le prime due.
Tali manifestazioni possono insorgere in età variabile, con incidenza ed eziologia eterogenea e multifattoriale, variando anche per la possibilità di intervento e risoluzione in maniera molto significativa in base a gravità e prognosi.

Tra le psicosi o sindromi psicotiche, la schizofrenia, nelle sue varie manifestazioni è stata ampiamente trattata e valutata nelle sue produzioni fenomenologiche, alla ricerca di una comprensione sia in termini psicodinamici, sia puramente descrittivi per la formulazione di una diagnosi di schizofrenia.

G.O. Gabbard definisce la schizofrenia come una malattia eterogenea, con manifestazioni cliniche proteiformi. Un’utile strutturazione della sintomatologia descrittiva del disturbo è la sua suddivisione in tre raggruppamenti: 1)sintomi positivi, 2) sintomi negativi, 3)relazioni personali disturbate.

I sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero (come i deliri), i disturbi della percezione (come le allucinazioni), e le manifestazioni comportamentali (come catatonia e agitazione). O. Gabbard definisce positivi i sintomi in relazione al loro apparire e come produzione florida di “presenza”, mentre i sintomi negativi sono caratterizzati da “assenza” di funzioni e comprendono un’ affettività coartata, povertà di pensiero, apatia etc.

Alcuni autori (Carpenter 1988) hanno effettuato un’ulteriore distinzione dei sintomi negativi, evidenziando come certe forme di ritiro sociale, come l’affettività appiattita o apparente e l’impoverimento del pensiero, possano essere secondarie rispetto all’ansia, alla depressione, alla privazione ambientale, proponendo per essi l’espressione “sindrome da Deficit”, che non di sintomi negativi.

Le relazioni interpersonali disturbate sono molto mutevoli, così come i vissuti e le esperienze soggettive dello schizofrenico; le più evidenti e ridondanti sono il ritiro sociale, l’espressione inadeguata sia della aggressività che della sessualità, incapacità di leggere i bisogni altrui, pretese eccessive ed incapacità di avere e mantenere un legame significativo con altre persone. Su questo ultimo punto le differenze soggettive e la manifestazione del disturbo sono molto variegate e scarsamente definibili a priori, ma proprio sulla costruzione di un legame significativo, spesso esterno alla famiglia ed all’ambiente, si possono rintracciare e ricercare i prodromi per un tentativo di cambiamento.

L’ipotesi eziologica attuale più accreditata per le psicopatologie gravi, in cui rientra anche la psicosi, considera un’interazione di fattori biopsicosociali, in quanto nessun singolo fattore è considerato tale da essere alla base di una condizione psicotica. Negli anni più recenti si è affermata l’ipotesi di una interazione di fattori molteplici, che appartengono a diverse aree, e non a un singolo fattore; un’interazione quindi tra vulnerabilità genetica, tratti dell’individuo e caratteristiche dell’ambiente. Questa formulazione è stata d’importanza fondamentale nel modificare l’atmosfera di “accusa” alla madre, come causa dello sviluppo di un disturbo schizofrenico nel bambino, e nel sottolineare la possibilità che siano certe caratteristiche del bambino a rendere difficile o impossibile alla madre una risposta adeguata alle sue necessità. Questo aspetto è stato approfondito dagli psicoanalisti che si sono occupati del sé e del suo sviluppo condividendo, nonostante alcune controversie, l’importanza delle capacità di risposta empatica dell’oggetto sé, dell’ esperienza di “chi accudisce” come “buono abbastanza” e di sintonia affettiva tra madre e bambino (Stern D. (2006).

Tutti gli autori citati, a prescindere da quali siano i fattori genetici, biologici e ambientali considerati alla base di un disturbo nelle relazioni primarie e nel precoce sviluppo intrapsichico, sottolineano l’importanza di una fondamentale e crescente fiducia del bambino nel fatto che gli stati di tensione da bisogno possano essere tollerati e risolti. Se infatti le esperienze negative vanno al di là di carenze transitorie per gravità e durata, il bambino sviluppa un senso di impotenza rispetto alla regolazione dei suoi stati interni, una base di durevoli deficit nella capacità di mantenere un senso di integrazione personale e un senso di significato, che determini la ricerca di metodi compensatori a tale deficit.

All’aspettativa positiva di soddisfazione del bisogno, si da il nome di fiducia di base, (E. Erikson 1950) che permette la tolleranza della passività sia dell’attesa di fronte al bisogno, sia della frustrazione, entrambe essenziali nel determinare le successive capacità adattative e le acquisizioni evolutive, nel senso di una sempre minor dipendenza dall’ambiente permessa dai processi di interiorizzazione e apprendimento. La tolleranza dell’attesa permette infatti la temporanea sospensione della risposta di fronte all’ambiente interno e esterno e lo strutturarsi di uno spazio in cui progredisce l’autonomia dell’individuo da entrambi; si sviluppa il pensiero, come attività di prova che si interpone tra stimolo e risposta, ed iniziano comportamento esplorativo e processo di apprendimento, utilizzazione dell’ansia come segnale di allarme che mobilita meccanismi di difesa e di coping, e lo sviluppo di meccanismi di autoregolazione (G.C. Zapparoli op. cit. 2009).

Tale aspettativa positiva è essa stessa una forma di controllo e di regolazione in relazione all’esperienza interna, una sorta di regolatore dello stato interno. Anche l’atteggiamento verso i propri bisogni ne è influenzato in quanto questi vengono percepiti come appartenenti al Sé, quindi posseduti e accettabili nella misura in cui lo stato di tensione legato al sorgere del bisogno viene sentito come modificabile.

Si costituiscono quindi le basi per un fondamentale cambiamento: dalla percezione di sé come eminentemente passivo rispetto al bisogno e alla sua soddisfazione, alla percezione di sé anche attivo, con una qualità di iniziativa e padronanza nei confronti del proprio mondo interno e della realtà esterna. All’estremo contrario, troviamo l’espressione del fallimento del processo evolutivo dovuto ad una prevalenza traumatica dell’esperienza di non soddisfacimento del bisogno: l’ansia aumenta fino a divenire panico, senza che possano venire mobilitate modalità o difese adeguate, non si struttura una capacita di autoregolazione; le forze e le emozioni legate ai bisogni sono sperimentate in termini negativi come forze minacciose, intrusive dall’interno, estranee, non possedute, l’esperienza del sé e di passività e impotenza. Tutto questo ha, evidentemente, conseguenze fondamentali per l’organizzazione dell’ esperienza e dei suoi significati, che si riflette sulla strutturazione dell’ immagine di sé, degli altri e sulla relazione con la realtà interna ed esterna, e in caso di gradi estremi, esiste una patologia legata ad un “difetto” strutturale e funzionale. Il concetto di deficit è dunque comprensibile se lo inseriamo in un contesto evolutivo, in cui qualsiasi essere che abbia una evoluzione può incontrare ostacoli nel suo corso evolutivo, che determinano deviazioni e/o arresti alla base di una vasta gamma di disturbi, che si pongono su un continuum tra gli estremi di configurazioni conflittuali e deficitarie (G.C. Zapparoli op. cit. 2009 pagg 11).

Alcuni autori in ambito psicoanalitico e non, hanno dato un contributo all’elaborazione del concetto di “deficit” o “difetto” utilizzati da entrambi con uguale significato, anche se alcuni preferiscono il termine “difetto” per sottolineare che non si tratta del termine deficit che Kohut utilizza in relazione allo sviluppo del settore narcisistico della personalità.

Il concetto di difetto dell’lo è stato discusso in modo esauriente da Pine (in Zapparoli 2009 op. cit); egli distingue tra “deficit” riferito ad una carenza dell’accudimento da parte dell’ambiente, e “difetto” riferito a qualcosa che non funziona bene all’interno della persona, secondo lui nell’area dell’Io, si manifesta uno sviluppo difettoso delle funzioni di difesa, adattamento ed esame di realtà.

Egli ricorda che il concetto di difetto in psicoanalisi non è nuovo: S. Freud I’ha trattato in relazione alla interminabilità del trattamento psicoanalitico, e parte del concetto di basic fault di Balint, e A. Freud (1974) differenzia due tipi di psicopatologie: una basata sui conflitto, e l’altra sui difetto nella struttura di personalità, causato da irregolarità e fallimenti evolutivi. Le cause dice Pine, ponno essere molteplici: biologica, traumatica o collegata a un grave conflitto precoce; ma il risultato è un fallimento significativo nello sviluppo di una o più funzioni dell’Io.

Lo stesso Pine porta esempi di componenti dell’Io soggette ad un processo di sviluppo, che possono di conseguenza avere un ‘evoluzione difettosa. Un primo esempio è relativo all’”ansietà rispetto al panico” che influenza lo sviluppo della capacità dell’Io di utilizzare I’ansietà come segnale, rispetto all’insorgere del panico, collegato al fatto che il sorgere del bisogno, qualsiasi esso sia, (di accudimento, di stimolazione, di contatto) suscita non un ‘aspettativa positiva ma la certezza di una frustrazione. In secondo luogo Pine ricorda che “difetti” possono essere presenti anche in relazione all’atteggiamento verso i propri bisogni, che è influenzato da queste precoci vicissitudini.

Anche la tolleranza alla frustrazione è un risultato di questo sviluppo precoce, come la capacità di tollerare l’attesa della soddisfazione, influenzata dagli eventi sopra descritti, oltre che da fattori costituzionali; è questa e un’altra area nella quale esiste la possibilità di uno sviluppo deficitario.

Altri potenziali fattori di disturbi evolutivi descritti dall’autore derivano dal fallimento nel raggiungere la differenziazione tra sé e l’altro, che è in se stessa una delle più gravi condizioni deficitarie ed ha serie conseguenze per lo sviluppo del test di realtà.

Molti altri autori e correnti di pensiero hanno dato il loro contributo rispetto all’esistenza di un deficit connotandolo entro cornici teoriche di riferimento anche diverse tra loro. La necessità di brevità impone un taglio di sintesi in cui viene sottolineata la presenza di una componente deficitaria, un’ anormalità biologica di base, nei confronti della quale la componente conflittuale è in profonda interazione. Naturalmente, da un punto di vista di una valutazione psicodinamica, possiamo descrivere le manifestazioni della componente deficitaria secondo termini diversi da quelli utilizzati da un punto di vista sintomatico o descrittivo; è deficitaria l’idea di sé per la non sufficiente differenziazione tra il sé e l’oggetto, quindi nel test di realtà sono deficitarie le relazioni oggettuali, in quanto il bisogno è imperioso è più importante dell’oggetto: il rapporto con il bisogno.

La differenziazione degli affetti, l’autostima, il controllo dell’aggressività, lo sviluppo del repertorio di difese sono immature, primitive e rigide, ossia diventano parte della definizione di sé o elementi strutturali e funzionali deficitari, che si costituiscono come tali nel corso dello sviluppo e influenzano profondamente sviluppo ulteriore e funzioni difensive e adattative.

Zapparoli riporta diversi esempi di deficit che devono essere affrontati durante il trattamento degli stati psicotici che qui restituisco:

– deficit nella capacità di tollerare la passività, la frustrazione, la perdita, l’attesa per cui sorgere del bisogno e sua soddisfazione devono essere contemporanei

– deficit nella capacità di autoregolazione, ad esempio degli impulsi aggressivi

– deficit nella capacità di tollerare l’ansia, o della capacità di utilizzarla come “segnale di pericolo” per cui “il pericolo” si determina una situazione di panico disorganizzante

– deficit nello stabilire e mantenere relazioni oggettuali, in particolare quelle fondate sulla differenziazione sé-non sé, sulla parità e sulla reciprocità

– deficit nella capacità di separazione-individuazione, rapportabili ad esigenze simbiotiche e a disturbi nella strutturazione di un sé differenziato e dotato di coesione e continuità

– deficit nella capitalizzazione del giusto aiuto ovvero incapacità di utilizzare positivamente esperienze potenzialmente evolutive, siano esse lavorative, scolastiche, amicali, terapeutiche; e rapportabile essenzialmente all’ incapacità di accettare il limite.

In generale, come già sottolineato, I’intervento elettivo prioritario nelle condizioni deficitarie e la strutturazione di un intervento di compensazione o “protesi”, con I’obiettivo di fornire al paziente un sostegno a ciò che gli manca; alcuni esempi sono: un intervento farmacologico e/o assistenziale e/o una psicoterapia di sostegno, che precede ogni intervento finalizzato all’ elaborazione della propria situazione deficitaria in senso evolutivo e la valorizzazione delle risorse residue.

Questo tipo di intervento psicoterapeutico, che rientra anche della mia esperienza in un contesto di lavoro quale la comunità terapeutica, dove esercito ed in cui mi rappresento e cerco di impersonare quella funzione di “intermediaro” tra la follia ed il paziente, ma anche tra la diversa “mappa dei poteri” che utilizzano la loro influenza, ed il loro “potere” nella strutturazione di un percorso sia terapeutico sia esistenziale/esistentivo sul paziente grave.

Il potere è rappresentato dall’onnipotenza del paziente stesso e del suo bisogno di negare i bisogni, dalla famiglia, ed in genere anche da coloro che se ne occupano come professionisti (CSM Enti, operatori di Ct etc).

Luogo la ct dove il disagio, la sofferenza ed il disturbo psicopatologico si esprimono in maniera evidente, drammatica, a volte persino tragica, con evidenti complicazioni disfunzionali, non solo per il paziente, ma spesso per la famiglia, il contesto di origine, i servizi di salute mentale che se ne occupano e gli operatori di Ct. Il grado di compromissione della persona è ad un livello così elevato, di alto grado di resistenza al cambiamento, di “cronicità” in cui si è usato spesso negli ultimi anni, parlare di area deficitaria della personalità, che richiedono interventi di sostegno alla area dell’io deficitaria come interventi di protesi piuttosto che di interventi terapeutici. Alimentando la distorsione e la frustrazione dell’intervento sentito come circoscritto, delimitato e di scarso cambiamento. Forse contribuendo a negare l’importanza di un intervento di riconoscimento dei bisogni del paziente grave: di dipendenza, di sicurezza, di negazione dello stato di bisogno, della necessità di allearsi e sostenere tali bisogni con tecniche di intervento supportive, di protesi, focalizzando l’intervento sulle necessità e non sul superfluo, paragonando e svalutando il lavoro al punto di negare o sminuire la terapeuticità di esso, ed il relativo cambiamento. Nella terapia con pazienti nell’area del deficit, di tipo supportivo, l’utilizzo ed il reperimento di un focus problematico e di intervento, come l’individuazione del bisogno essenziale del paziente, si rende necessaria poiché spazza via il superfluo dall’essenziale(Zapparoli 2002 op. cit). Il rivivere ed attualizzare nel proscenio della CTR, sugli operatori, di spezzoni transferali inconsci, la diversa natura controstrasferale della relazione con questi ultimi, se pensata e non agita, permette effettivamente la possibilità di un vissuto di Esperienza Emotiva Correttiva (E.E.C.) che spiazza e ridefinisce confini e relazioni oggettuali interne / esterne. Questo non rimanda ad un cambiamento strutturale, ma ad una diversa ridefinizione dei confini ed accettazione dei limiti, ad una compensazione stomatologica, ad una area meno pubblica e più privata della follia. Questa necessità di reperire ed affrontare un focus problematico nasce dall’evidenza clinica e dalla necessità di spazzar via il superfluo dall’essenziale nel riconoscimenti dei bisogni specifici del paziente grave, data sia l’urgenza e la tragicità della crisi e la necessità di poter costruire una alleanza terapeutica stabile e proficua basata sull’individuazione ed eventuale evoluzione dei bisogni. I bisogni del paziente grave saranno perlopiù orientati alla area della sicurezza / dipendenza. Riconoscere e accettare i bisogni specifici psicotici e già un atto terapeutico in quanto offre allo psicotico un’esperienza di accoglienza e accettazione, correttiva rispetto alle negazioni del se autentico frequentemente subite fin dalla prima infanzia, e fornisce uno specchio unificante a chi ha reagito con la frammentazione al non sentirsi accolto e amato “per quello che e”. In questo senso, fornire un ascolto, quindi una esperienza emotiva correttiva, per rilevare i bisogni specifici e costruire un’alleanza terapeutica costituiscono il medesimo intervento. Infatti I’alleanza si struttura sulla base della profonda accettazione, nella fase iniziale, del paziente “cosi come è”, per poterne capire i bisogni specifici, senza pretendere una sua prematura modificazione: solo se lo psicotico fa I’esperienza della totale accoglienza di se riuscirà a strutturare una alleanza. Infatti nella parte psicotica del paziente risiede I’ esperienza soggettiva più autentica e profonda: qui stanno le radici della psicosi (Zapparoli 2009 op. cit.): i deficit, i conflitti e le soluzioni onnipotenti e illusorie che ha sviluppato e che non può lasciare senza cadere nel panico. La domanda che i curanti devono porsi e: “Come dare spazio, accanto alle attività riabilitative e terapeutiche rivolte alla parte sana, alla parte psicotica?”. Quando la rilevazione dei bisogni e I’alleanza non sono adeguatamente considerate o non sono ritenute il passo preliminare ad ogni trattamento, vediamo pazienti subire gli interventi, essere spettatori di una riabilitazione che non coglie i loro bisogni reali, vissuta ad esempio come un pedaggio necessario per poter vivere situazioni di protezione residenziale. Anche i farmaci, non veicolati da un’alleanza, possono essere vissuti come interventi anonimi, privi di coinvolgimento umano o “pericolosi”, in quanto perseguono fini diversi dai propri e come tali inefficaci.

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